Conversazione con Fernando Solanas, maestro del cinema sociale argentino morto nei giorni scorsi
Per gentile concessione del sociologo Adolfo Fattori, pubblichiamo in esclusiva una lunga intervista inedita al regista sudamericano scomparso il 6 novembre a 84 anni. L'hanno realizzata nel 2008 due studentesse di Sociologia, in occasione della presenza a Napoli dell'autore di un cult movie come "L'ora dei forni"
Qualche giorno fa, il 6 novembre, è morto a Parigi, aggiungendosi alla lunga lista di vittime del Covid-19, il regista argentino Fernando “Pino” Solanas, sincero democratico e acuto intellettuale, protagonista e testimone della vita argentina degli ultimi decenni del Novecento e del primo decennio del Duemila. I suoi lavori hanno documentato con rigore critico e grande passione i disastri che hanno segnato la vita politica, sociale, economica del suo Paese, dalla dittatura di Videla alla presidenza Menem, tanto da mettere a rischio in più di un’occasione la sua vita e a costringerlo all’esilio prima in Spagna e poi in Francia. Sul finire del 2008 Pino Solanas fu ospite, a Napoli, del Cinema dei diritti e di un convegno presso la facoltà di Sociologia dell’università Federico II, durante il quale fu anche proiettato il suo film Diario del saccheggio del 2004. Assistetti al convegno e curai l’organizzazione della proiezione del film (ma non ero fra i relatori). A latere, organizzai per due tra le più brillanti e appassionate studentesse di Sociologia di quegli anni, le sorelle Giovanna e Palma Papa, un incontro con Solanas, affinché potessero intervistarlo, cosa che lui accettò volentieri. L’intervista doveva essere pubblicata all’epoca su rivista ma, dopo averla consegnata, non ne ho saputo più nulla. La ripropongo oggi, dopo averla ritrovata nelle “caverne” del mio computer, come omaggio a un coraggioso e fine intellettuale, come riconoscimento (tardivo) alle mie due allieve – amiche, anche – e per gli spunti di attualità che ancora conserva. Anni dopo, in piena crisi economica (attorno al 2012 o 2013), nella scuola in cui ero tornato a insegnare proiettai Diario del saccheggio. A fine proiezione, uno dei miei alunni esclamò: “Sembra l’Italia di oggi!”. Ecco, dunque, qui di seguito, l’intervista a Fernando “Pino” Solanas realizzata nel 2008 a Napoli da Giovanna e Palma Papa (Adolfo Fattori).
Lo sguardo degli altri Intervista a Fernando Solanas di Giovanna e Palma Papa
Fernando Ezequiel Solanas, nato a Buenos Aires nel 1936, è stato un regista cinematografico e teatrale, attore, musicista per oltre cinquant’anni a cavallo fra arte e impegno sociale. Nel 1968 realizza clandestinamente il suo primo lungometraggio, La hora de los hornos (L’ora dei forni), documentario su neocolonialismo e violenza in America latina, distribuito in più di settanta Paesi. L’anno dopo fonda con Octavio Getino il gruppo Cine-Liberación. Termina il suo primo lungometraggio di fiction Los Hijos de Fierro (I figli di Fierro) nel 1975, per poi recarsi in esilio in Spagna l’anno successivo e quindi stabilirsi in Francia dove realizza, nel 1980, il documentario La mirada de los otros (Lo sguardo degli altri). Alla caduta della dittatura, nel 1983, ritorna in Argentina. Nel 1985 viene premiato alla Mostra del cinema di Venezia per Tangos… El exilio de Gardel (Tangos… L’esilio di Gardel) e tre anni dopo a Cannes per Sur (Sud). Dal 1989 inizia una campagna di denuncia delle politiche di Carlos Menem, a causa della quale subisce addirittura una “gambizzazione” e che poi culmina in un reportage del 1991, El viaje (Il viaggio), uscito un anno più tardi. Nel 1998 realizza quello che è il suo ultimo lungometraggio di fiction, La nube, poiché negli anni successivi si dedica principalmente al documentario. Ne gira, infatti, tre in rapida successione: Memorias del saqueo (Diario del saccheggio, 2004), La dignidad de los nadies (La dignità degli ultimi, 2005) e Argentina latente (2007). A metà novembre 2008, Solanas ha presentato il suo documentario La próxima estación (La prossima stazione, 2008) nelle periferie napoletane ed è stato ospite della facoltà di Sociologia dell’università Federico II. In seguito, ha girato ancora un documentario, La tierra sublevada, diviso in due parti intitolate Oro impuro (2009) e Oro negro (2010). Questa intervista, inedita finora e in molti punti ancora estremamente attuale, è stata realizzata proprio in occasione della presenza del regista argentino a Napoli nel 2008.
Dalla visione di Diario del saccheggio emergono numerose analogie tra l’Argentina e l’Italia, per ciò che la politica ha fatto in questi anni in termini di privatizzazioni e investimenti in infrastrutture, ma anche in relazione al controllo dei media. Lei ritrova questo tipo di analogie? “Innanzitutto, giuro che non mi ha ispirato la storia politica italiana degli ultimi anni per fare questo film. Il soggetto di base del film, infatti, è legato alle conseguenze catastrofiche, inumane, irrazionali del neoliberismo in Argentina e in quasi tutti i paesi dell’America del Sud. Io sono amico di Lula e quando ho portato il film in Brasile molta gente diceva ‘Questo è il Brasile di Fernando Henrique Cardoso’ e dicevano anche che gli sembrava di guardare ‘Il Brasile di Lula’. E io rispondevo: ‘No, è l’Argentina’. Il film poi è andato in Russia e lì hanno detto la stessa cosa. Sono venuto in Italia ed è successa la stessa cosa. Si tratta di formule politiche: per esempio, Menem è il prodotto diretto della manipolazione mediatica e della volontà dei grandi gruppi economici, le multinazionali, le banche internazionali, che hanno bisogno di inventare questo tipo di personaggio. È il modello neoliberale, nato alla fine degli anni Ottanta dalla certezza del consenso di Washington e che ha nutrito attraverso la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale il disegno di un modello base di dominazione mondiale a cavallo del mito della globalizzazione, che non è altro che una nuova svolta del colonialismo che interviene sempre. Il crollo mondiale di questi anni è stato preceduto da alcuni episodi evidentissimi. Che cos’è stato, per esempio, in Italia lo scandalo Parmalat se non un crollo monumentale avvenuto con la complicità delle istituzioni della Repubblica Italiana? C’è da chiedersi: dov’era la giustizia? Dov’era la Procura della Repubblica, dov’erano le istituzioni? Che cosa guardavano? E la Enron? Una tra le cinque più grandi corporazioni degli Stati Uniti, con duemila milioni di dollari rubati agli azionisti, fallita in tre anni. Il salvataggio dei popoli di qualsiasi Paese può avvenire solo grazie al crollo del neoliberismo: questo è l’aspetto grottesco dell’attività delle grandi corporazioni. Nel caso della Enron, il denaro del popolo americano è stato dato ‘in salvataggio’ a una banca privata, che giocando sul trasferimento virtuale del denaro lo ha investito in tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio. Il credito e il denaro sono del popolo, il credito deve essere pubblico, gestito dallo Stato. In Argentina tutti i dirigenti della Banca centrale dovevano essere spediti in galera, ma nel 2002 il Parlamento ha modificato la legge nazionale sulle sovvenzioni economiche proprio per evitare che i dirigenti di tutte le banche straniere presenti in Argentina andassero in galera. È uno scandalo assoluto. E la situazione in tanti altri Paesi, non solo in Italia, è simile. E ciò è normale, poiché la logica neoliberista è dominante in questi Paesi esattamente come in Argentina“.
In ambito di documentario sociale, che cosa pensa del cinema di Michael Moore e della diffusione globale che il suo lavoro ha avuto in questi anni anche al di là dell’ambito specifico del documentario? “A me piace il lavoro di Michael Moore, che è arrivato a diventare anche un personaggio capace di funzionare benissimo. Quando appare all’interno dei suoi film, infatti, interpreta il tipico personaggio timido nel quale possiamo identificarci, che tante volte dice al poliziotto o al portiere tutte le cose che prova in prima persona. È la linea del cinema di denuncia. Ma io ho iniziato quarant’anni prima, ho fatto L’ora dei forni nel 1968 e anche Moore lo ha visto tante volte. Il mio è un cinema più elaborato cinematograficamente, più di riflessione, non affrontando soltanto il primo livello della denuncia. Sono film che offrono uno sguardo che contiene una proposta. Per quanto riguarda l’ampia diffusione del cinema di Michael Moore, bisogna dire che lui è americano. E il potere di questa enorme cinematografia, che ha detto cose molto brillanti sul mondo e che però continua a ripetere la stessa formula: un cinema di intrattenimento con una straordinaria capacità di dotarsi di effetti, ma che però è molto superficiale e senza una vera creatività linguistica e drammatica, così come senza riuscire a prescindere dal rapporto di causa/effetto che lo tiene molto legato sia alla concorrenza sia al denaro. Non c’è dubbio che nel cinema americano vi siano molti maestri, da Francis Ford Coppola a Woody Allen e tanti altri. Ma per me è comunque un cinema della corporazione mediatica, non un cinema d’autore, perché anche il montaggio, il diritto al final cut, è del produttore non dell’autore. Soltanto quando il regista è anche produttore, come nel caso di Coppola, si può parlare di cinema d’autore“.
Film come i suoi possono dare speranza alle tante “vite di scarto” come scrive Zygmunt Bauman, oltre che documentare ciò che accade nei Paesi dell’America latina? “È un momento molto particolare, straordinario per l’America latina, per l’America del Sud soprattutto, perché il Messico ha stabilito dieci anni fa un accordo di collaborazione economica con Canada e Stati Uniti e l’America centrale è a sua volta sotto l’influenza dell’irradiazione di questo accordo economico. Per l’America del Sud questo è un momento straordinario, perché c’è un insieme di governi progressisti, democratici, di centrosinistra o sinistra, con Cristina Kirchner in Argentina, Michelle Bachelet in Cile, Tabaré Vàzquez in Uruguay, Lula in Brasile; e poi Chavez e Rafael Correa, Ortega, il partito Colorado in Paraguay per la prima volta dopo quarantacinque anni. Si tratta di un momento straordinario, di vero progresso, pace e democrazia. In Argentina, il governo Kirchner è il risultato di un’ondata plebiscitaria di partecipazione popolare e nasce in maniera non progettata. Questa insurrezione spontanea avvenuta verso la fine del 2001 si realizza al grido di ‘Che se ne vadano tutti!‘, un po’ ingenuo ma che però esprimeva in pieno un sentimento condiviso. Un anno dopo quel grido, la classe politica ha capito che doveva convocare le elezioni generali subito, per evitare che questo mondo, questa importante risposta popolare si organizzasse autonomamente. Fu allora che si svolsero le elezioni dell’aprile 2003 e la Kirchner si piazzò seconda nel primo turno, ma siccome l’insieme del paese era contro Menem lui non si presentò al secondo turno e venne eletta la Kirchner, che poi ha sviluppato una politica molto progressiva dal punto di vista politico. L’ottanta per cento del Paese voleva, per esempio, la soppressione della legge che concedeva l’impunità ai terroristi di Stato e la Kirchner ha realizzato questo, che era l’obiettivo del lavoro trentennale delle madri di Plaza de Mayo e dell’Organizzazione dei diritti umani. Ha poi condotto una politica estera interessante, di alleanza col Brasile di Lula e col Venezuela di Hugo Chavez. Tutto questo è molto positivo. Invece, non funziona altrettanto bene all’interno del Paese, nel senso che non è riuscita a intaccare minimamente il blocco neoliberale che controlla e sfrutta le risorse naturali del Paese. Il governo Kirchner, insomma è un governo contraddittorio, con alcune misure adottate che sono senza dubbio progressiste, ma solo perché c’è stata la pressione di una forte mobilitazione popolare. Ma è un miracolo che ne abbiate sentito parlare qui in Italia, perché il sistema mediatico europeo produce una disinformazione scandalosa, non racconta niente. E questo è gravissimo. Quando si riporta qualcosa lo si fa da un punto di vista esterno che risulta sbagliato. Magari, si prende una frase di Chavez isolata dal contesto e dalla tematica generale e si crea l’immagine di una sorta di clown di sinistra. Noi, invece, lavoriamo per la ricostruzione di un nuovo sguardo e di un nuovo pensiero sociale e politico basato sulla difesa della vita e dell’ecosistema come valore fondamentale e non sullo sfruttamento indiscriminato, sull’inquinamento e sulla distruzione dell’ecosistema, sulla contaminazione delle acque grazie a tutte le sostanze chimiche prodotte dalle industrie che vengono sversate di nascosto. L’immoralità delle classi dirigenti economiche mondiali si rivolge principalmente verso i Sud del mondo, verso i Paesi del Sud, dall’Africa all’America latina. La distruzione dell’ecosistema e il riscaldamento della Terra oggi sono i problemi maggiori dell’umanità e non lo si capisce. Siamo in un momento molto difficile, dobbiamo partire verso una democrazia di forte contenuto sociale, solidale, cooperativa, che abbia come primo valore la difesa della vita e della società; ed è un cambiamento che senza la partecipazione e la mobilitazione popolare non può avvenire. Il secondo obiettivo da perseguire è la democratizzazione del sistema mediatico, poiché senza questa democratizzazione il cambiamento sarà lentissimo“.
Come avete fatto, lei e gli altri autori argentini, nel momento peggiore della recente storia nazionale, a continuare a produrre cultura nonostante la terribile situazione economica e il clima generale venutosi a creare? “I lavori che abbiamo realizzato nascono dalla necessità e dallo spirito di resistenza. Buona parte del Paese crede che il governo Kirchner non possa rappresentare la strada verso un reale processo di emancipazione, in quanto continua a essere un governo del Partito giustizialista, responsabile del disastro argentino. In questo periodo, però, c’è una grossa mobilitazione della base sociale e ciò è importante. Ci sono mezzi alternativi a disposizione per assicurare un’informazione corretta, però il Paese è ancora dominato da una presenza forte delle élite che controllano i mezzi di comunicazione. La verità è che a lungo andare la comunicazione può cambiare la cultura di un Paese. La potenza di trasmissione della televisione è incomparabile. E in Argentina questo medium ha imposto una dimensione di divertimento permanente, confusione, gioco che occupano l’immaginario, il tempo e la coscienza della gente e propagandano un estremo individualismo all’insegna del ‘Me ne frego degli altri‘, perché la vita vera è il calcio, l’automobile, le belle donne, il gioco“.
Lei ha realizzato, oltre ai documentari, anche film narrativi come Sur o La nube. C’è differenza nella realizzazione e nella progettazione dei film narrativi e dei documentari? E come sceglie il tema da trattare nelle sue produzioni? “Io sono un produttore indipendente, un autore che s’è creato la propria casa di produzione per assicurarsi l’indipendenza delle scelte. Ho fatto sempre le cose che ho voluto, ho preso da solo le decisioni di cosa fare, come fa uno scrittore. È un processo molto personale in rapporto alla propria coscienza, al proprio desiderio esistenziale. Evidentemente nei due formati, fiction e documentario, si usano registri differenti, però l’autore è lo stesso. E, comunque, un film non è mai esattamente come un semplice documento, nella misura in cui tu fai la scelta di dove mettere la macchina da presa, di come fare le inquadrature, di lasciare fuori tutte le cose che non ti interessano. Vuol dire che è sempre l’autore che sceglie e utilizza tutte le possibilità offerte dal linguaggio cinematografico. Il cinema di finzione è una finzione di riproduzione della realtà: Gomorra di Matteo Garrone, per esempio, è un film che non riproduce la realtà ma è ispirato dalla realtà e la rende finzione. Nei miei lavori di finzione, io sono sempre partito dalla mia necessità esistenziale, dalla mia coscienza e dalla mia sensibilità. Quando, invece, ho scelto di realizzare un film ‘di investigazione’ è stato perché avevo la necessità di investigare, di sviluppare un discorso di analisi, di spiegazione e proposta su una determinata realtà. Quelli di investigazione sono film più oggettivi, nei quali parliamo di fatti concreti. Quando si fa una fiction, il riferimento più appropriato è al mondo misterioso e ambiguo della poesia, mentre il cinema di investigazione è legato al ricercatore, al giornalista scientifico, che fa ricerca, studia, cerca di fare un’analisi, una sintesi, una proposta. Nel cinema di finzione non c’è bisogno di spiegare le cose, ma è sufficiente esprimere un pezzo di vita di alcuni personaggi, esprimere il mistero, la seduzione della poesia, cioè la sua parte misteriosa. E questo mistero è come un’eco, una risonanza“.
Grazie ai nuovi media e alle tecnologie digitali, oggi è possibile personalizzare i “contenuti” della comunicazione ed entrare “dal basso” nel circuito della comunicazione e dell’informazione ufficiale che proviene dall’alto. Lei che cosa pensa di queste nuove possibilità? “È una sfida cercare di contestare l’informazione che arriva dall’alto. Oggi viviamo in una situazione molto particolare. Lo scarto generazionale fa sì che le persone più anziane non arrivino a utilizzare fino in fondo la possibilità di navigare su internet. Fra l’altro, non abbiamo giornali davvero indipendenti ed elaboriamo le informazioni del web cercando di filtrare chi governa la catena dell’informazione. Però, oggi siamo nella fase della fibra ottica, con la possibilità di avere accesso a centinaia di canali televisivi. Abbiamo la possibilità di una grande democratizzazione, che i gruppi economici e le corporation vogliono controllare“.
La letteratura argentina del Novecento è ricca di autori straordinari, come Jorge Luis Borges o Gabriel Garcia Marquez, ma anche altri di grande importanza come Osvaldo Soriano, Roberto Arlt, Ernesto Sabato, Manuel Mujica Lainez, che esprimono anche istanze più combattive e differenti rispetto, per esempio, a un pilastro della letteratura novecentesca come lo stesso Borges. In Argentina questi nomi sono ancora presenti nel panorama culturale e che relazione esiste tra il suo lavoro e quello di questi scrittori? “La letteratura argentina è molto ricca. Alcuni analisti e specialisti della letteratura latino-americana o della lingua castigliana, come per esempio lo scrittore messicano Carlos Fuentes, ritengono che la prosa, la narrativa americana più importante in lingua castigliana sia proprio quella argentina. Gli scrittori in lingua castigliana sono tanti, tantissimi. Se non sono conosciuti vuol dire che mancano i ricercatori che si impegnano a lavorarci. Esiste un movimento letterario monumentale, con tanti altri autori oltre a quelli citati: per esempio, Julio Cortàzar o Leopoldo Marechal, che ha scritto Adán Buenosayres, il più grande romanzo argentino di sempre; oppure Ricardo Piglia o il sensazionale Martìn Caparròs. Per fortuna, oggi abbiamo alcune menti grandissime, anche nel teatro, nella poesia, nella musica“.
E c’è uno tra questi che la ispira particolarmente? “Beh, ci sono Carlos Fuentes e Martìn Caparròs, che sono tra i due o tre più grandi scrittori in lingua castigliana oggi. Poi ce n’è un altro che si chiama César Aira. Ma non sono i soli“.
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